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sabato 1 agosto 2015

2 agosto 1980



2 agosto 1980 
cronaca (assolutamente vera) di una drammatica "giornata qualunque"





1 agosto - ore 21.15
mi suona il telefono e vado a rispondere 
(Io ho 29 anni, vivo da solo a Granarolo dell'Emilia)
è mio padre che chiama dal telefono pubblico per salutarmi e avere notizie
(I miei genitori sono in vacanza nella casa che abbiamo sull'Appennino, vicino a Monghidoro. In quella casa non c'è il telefono fisso)
mi passa la mamma, mi dice che la mattina seguente scenderanno a Bologna per accompagnare in stazione Annamaria, che rientra a Torino con il treno delle 10.10
(Annamaria è la figlia di Rita, una carissima amica di mamma. Ha trascorso una settimana di vacanza ospite dei miei genitori)
2 agosto 1980 - ore 8.00
esco di casa e con la mia 124 vado a lavorare, è sabato, una giornata calda e afosa
(Lavoro come addetto alle vendite nel grande negozio di arredamenti Azzaroni, a Calderara di Reno. Sono stanco, ma felice perchè all'una finisco e da lunedì sarò in ferie. Oggi pomeriggio non lavoro, ho avuto quattro ore di permesso retribuito)
2 agosto 1980 - ore 12.00
finalmente al negozio arriva mio fratello, è in ritardo di quasi un'ora
(Mio fratello ha oggi un appuntamento con il mio titolare, per apporre una firma a garanzia di un prestito che mi ha concesso per poter cambiare la macchina)
si scusa e si giustifica dicendo che Bologna è mezza bloccata, che è successo qualcosa di grave, che ci sono sirene e ambulanze, dice di aver sentito dire che in stazione è scoppiata una caldaia nel ristorante e che ci sono molti feriti e forse dei morti
(Nessuno al negozio sa di questo incidente. Nell'ufficio dove mi trovo, la signora Maria, la segretaria di Azzaroni, accende una radio. Le trasmissioni nazionali sono interrotte e un cronista conferma che alla stazione di Bologna vi è stato un forte scoppio, probabilmente per l'esplosione di una caldaia. Pare vi siano diverse vittime, almeno una decina di morti)
2 agosto 1980 - ore 13.00
esco dal lavoro, mio fratello è già andato via, io frastornato, curioso, decido di andare in centro a Bologna, in piazza dei Martiri è tutto bloccato, non lasciano passare nessuna auto, parcheggio e proseguo a piedi
(Via Amendolo e poi viale Pietramellara sono pienessime di gente che va verso la stazione a piedi. Tutti sono in silenzio, agitati, i volti tesi)
2 agosto 1980 - ore 13.15
arrivo di fronte alla stazione, sotto i portici, davanti all'albergo, oltre non è possibile andare, sono sconvolto nel vedere che mezza stazione, tutta l'ala sinistra, è crollata, mai visto un disastro così
(Tra la gente continuano a dire che è stato un incidente, che è scoppiata una caldaia, nessuno parla di bombe. Sirene in continuazione, ambulanze, polizia, vigili del fuoco. Un autobus rosso di linea è difronte all'entrata principale della stazione, ha lenzuoli bianchi che coprono i finestrini, dicono che stanno caricando cadaveri maciullati, che i morti siano veramente tanti)
2 agosto 1980 - ore 13.30
più persone dicono che il tutto è accaduto poco dopo le 10, mi fanno notare che l'orologio della stazione è fermo esattamente alle 10.25
(In quel momento realizzo che mamma mi aveva detto che alle 10.15 avrebbero accompagnato Annamaria a prendere il treno per Torino.. sono sopraffatto dal panico, sono angosciato, decido di andare immediatamente a casa per telefonare ai miei genitori)
2 agosto 1980 - ore 14.00
sono rientrato a Granarolo e provo subito a chiamare i vicini di casa, su' in montagna, loro hanno in casa il telefono fisso, ma stranamente nessuno risponde
(L'angoscia mi aumenta, mi chiedo perchè la signora Egle non risponda? Saprò più tardi che la tragedia di Bologna ha colpito proprio la sua famiglia, la figlia della signora Egle è moglie di Bolognesi. La famiglia Bolognesi ha avuto due morti alla stazione, Polo Bolognesi, fratello del genero della signora Egle, diverrà tristemente famoso per essere poi il Presidente del Comitato delle Vittime della strage del 2 agosto 1980)
2 agosto 1980 - ore 14.30
mi chiama finalmente mio padre, mi dice che sono su' a casa in montagna, avevano saputo di quanto era accaduto appena giunti, dalla signora Egle, che poi era corsa giù a Bologna angosciata
(Mio padre mi racconta che il treno per Torino era partito puntualissimo dal primo binario alle 10.15, che loro proprio a quell'ora erano lì su quel tragico primo binario. Lui aveva parcheggiato l'auto proprio difronte alla stazione a pochi passi dall'entrata principale, e che sicuramente alle 10.20 erano già partiti, che alle 10.25 probabilmente si trovavano circa a porta Zamboni) 
2 agosto 1980 - ore 16.30
da Granarolo ritorno a Bologna, già alla radio parlano di più di cinquanta morti, non posso fare a meno di partecipare con la mia presenza a questo grande dolore che mi attanaglia lo stomaco.
(A Bologna vado con una mia amica. Alle 17 sono difronte alla stazione e proprio per caso incontro Franco, un carissimo amico ferroviere. Mi fa entrare all'interno della stazione, sul primo binario. Qualcuno comincia a dire che forse è stata una bomba. Rimango sul primo binario, appoggiato alla transenna, oltre la quale non è possibile andare, fino alle due della notte. A quell'ora estraggono dal treno distrutto, fermo sul primo binario, pochi metri da dove sono io, ancora un altro cadavere irriconoscibile, quasi contemporaneamente c'è una improvvisa agitazione tra i soccorritori, un ferito è stato appena estratto dalle macerie della sala d'aspetto crollata)
3 agosto 1980 - ore 02.30
rientro a casa, ho lo stomaco chiuso, sono angosciato, distrutto, anche spaventato, mi metto sul letto ma non riesco a dormire
(Solo la mattina seguente realizzerò pienamente quanto è accaduto. Ormai sarà certo che è stata una bomba. I morti sono 84, che poi diverranno 85. Un uomo è morto all'angolo del hotel Jolly, in piazza di porta Galliera, colpito in pieno da un frammento di muro volato da oltre cinquanta metri)



venerdì 16 gennaio 2015

Mal(e) d'Africa - romanzo








Bernardino Maria Serenari
Mal(e) d'Africa
- la saga dei Piavotto in un secolo di Somalia -
romanzo
ARACNE EDITRICE - Roma
pag.524 - prezzo Euro 24,00 

è in libreria 

o nelle principali librerie on-line



I fratelli Piavotto nel 1926 partono per l'Africa e vanno a fare i coloni in Somalia.
Prima la crisi del 1929 e poi il dramma di Ceti, dopo finalmente i guadagni. 
Producendo e commerciando banane tra il 1940 e il 1965 qualcuno di quella famiglia si arricchisce e diventa “miliardario” mentre altri si ritrovano in un mare di guai economici. 
Per aiutarli i fratelli ricchi non fanno nulla, neppure quando nei momenti più drammatici loro li supplicano di farlo. 
Tutte quelle ricchezze alla fine del secolo rimangono all'ultime della famiglia Piavotto, la più giovane di sette fratelli, senza figli.
Lei decide di lasciare tutto alla nipote “povera”, ma dopo la sua morte viene registrato un testamento che destina tutto quanto al marito. 
Quel testamento risulta falso, ma per annullarlo il Tribunale impiega dieci anni, stabilendo alla fine che l’eredità spetta solo ai nipoti legittimi. 
Però tutto è scomparso.      
Gli eredi si ritrovano con in mano solo un pugno di mosche. Qualcuno ancora una volta è riuscito ad impossessarsi di quel immenso capitale e a farlo sparire!  
Chi  potrà  essere  stato?

Il racconto ti tutto quanto è accaduto in quasi ottant’anni è pieno di episodi allegri, drammatici, tristi, dolorosi e a volte estremamente mondani. 
Lutti, malattie, tradimenti coniugali, divorzi, tentativi di suicidio, e forse un rapporto quasi incestuoso tra un padre e sua  figlia adottiva. 
Nel finale il racconto si tinge quasi di "giallo": chi ha fatto il “colpo” da 20miliardi di Lire?





Bernardino Maria Serenari
è nato a Bologna il 18 Dicembre 1950.



Dal padre Mario, profondo studioso di Letteratura e di Filosofia, nonché di Latino e di Greco antico, e dalla mamma Angela Franco, insegnante di Storia dell’Arte e pittrice, ha ereditato fin dai primi anni della sua giovinezza una forte sensibilità artistica ed una vena poetica, che gli ha permesso di scrivere in forma autodidattica poesie e racconti.
Ha frequentato presso l’Università di Firenze la Facoltà di Architettura, ma non ha potuto conseguire la Laurea a causa del clima “caldo” di lotte studentesche, che caratterizzò la  fine degli anni ’60 e dei primi anni ’70.
Molto appassionato di Musica, oggi lui afferma che l’unica cosa di cui si rammarica, è il non aver potuto studiare al Conservatorio e conseguire il diploma in Pianoforte Classico.
Persona per sua natura carica di ottimismo (egli afferma, convinto, che la caratteristica principale di un Sagittario è l’essere ottimisti) oggi Bernardino Maria, all’età di sessantatre anni, si sente carico di tanta energia positiva da poter ancora pensare che tutto “il bello” debba ancora venire.
E’ con questa forte carica di fiducia che a Gennaio del 2014 si è buttato nell’avventura di scrivere questo Romanzo, che racconta per filo e per segno la Storia di una Famiglia che lui conosceva molto bene!
“Mal(e) d’Africa” ora è finito e lui agli amici promette che sarà il primo di una lunga serie di Romanzi e Racconti.
Bernardino Maria Serenari vive e lavora a Pieve di Cento, e nel tempo libero, lui che vive da single, si dedica al suo cane, ascolta musica, e… scrive!







PRIME PAGINE DEL ROMANZO





Prefazione dell’Autore


 

La storia che vado a raccontare è la storia della famiglia Piavotto di Racconigi e narra di tutto ciò che è accaduto dal 1873 (anno di nascita di Vittorina Mairano, poi moglie di Nerio Piavotto) al 2010 (anno di morte di Gigliola Trioglio, nipote di Nerio Piavotto).


Anche se i nomi dei protagonisti sono nomi di fantasia, molti dei fatti e degli avvenimenti, che qui in forma “romanzata” vengono raccontati, sono ispirati a fatti ed avvenimenti realmente accaduti ed appartengono alla Storia di un famiglia che mia Madre conosceva molto bene e che io pure, attraverso i suoi racconti, altrettanto posso dire di aver conosciuto. 
Coprono tutto il XX secolo e narrano delle forti trasformazioni avvenute all’interno di quella famiglia a seguito dell’andata in Africa, più esattamente in Somalia, di alcuni suoi componenti.
Dopo gli anni iniziali difficili, a cavallo del 1929, l’attività di coloni e produttori agricoli portò, tra gli anni ’30 e ’40, quelle persone ad arricchirsi notevolmente.
Alti guadagni che proseguirono anche dopo la II Guerra Mondiale e che, in particolare, furono assai ingenti tra il 1950 e il 1965.
Non tutti però ebbero l’opportunità di godere di quelle ricchezze, perché il “denaro”, come quasi sempre accade, crea in chi lo possiede arroganza e potere, e induce a compromessi, affari poco onesti e di conseguenza rapporti complicati e difficili, anche tra gli stessi componenti della propria famiglia.
In questo romanzo desidero raccontare alcune delle spregevoli cose che sono accadute, con fatti anche drammatici e tristi, che hanno poi consumato nell’ “anima” alcune persone di quella famiglia, che ad altre hanno fatto del male, e che hanno lasciato tutti con un grande “amaro in bocca”, per come poi le cose alla fine si sarebbero concluse.
Naturalmente a pagare per quegli inganni e per quelle ingiustizie furono le persone più buone ed oneste, ma nessuno alla fine, a mio parere, ne uscì vincitore.

Io stesso ho potuto trascorrere un breve periodo in Somalia e vivere dall’interno un‘esperienza africana. Posso dire che l’Africa, quella parte di Africa così equatoriale come la Somalia, quando la respiri e la vivi, ti inietta nelle vene e nel cuore qualcosa di misterioso e di affascinante, qualcosa che rimarrà per sempre nel tuo DNA e che ti farà sempre desiderare di poterci tornare… lo chiamano il “Mal d’Africa”… qualcosa che va oltre un sentimento od una emozione, qualcosa che non riesci a spiegare!


E’ per questo motivo che, mentre lo stavo scrivendo, ho desiderato chiamare questo mio lavoro “Mal d’Africa” ma poi, come tutti gli amori, che ti fanno star bene e che al tempo stesso ti fanno pure star male, considerato i guai che sono accaduti a quella famiglia, che di fatto sono stati legati all’Africa, anche l’Africa, indirettamente purtroppo!. mi ha fatto star male ed allora invece di 
“Mal d’Africa”.. “Male d’Africa” ovvero “Mal(e) d’Africa”



Dedico questo mio lavoro al ricordo di mia Mamma, che fu una delle persone he maggiormente riuscirono a vedere il “male” che in quella famiglia si era annidato, producendo solo sofferenze e delusioni.. e tanta amarezza nel ”cuore”!



                                      Bernardino Maria Serenari

14 agosto 2014



dal Capitolo 1


LE  ORIGINI


"Figliuoli, a tavola.. il babbo è appena rientrato ed ora possiamo cenare”. 
Mamma Vittorina ripeteva ogni sera la stessa cosa ai suoi sei figli, non appena suo marito Nerio alle sette rientrava dai campi, malgrado il vecchio padre, il nonno, sempre pieno di vino e con la testa più di là che di qua, da oltre un’ora brontolasse in dialetto che aveva fame, che era tardi, che in tutte le case alle sei e mezza si mangia e che quella era una casa di matti.
Mamma Vittorina era una donna piena di energie e di tanta pazienza, sopportava tutto, ma non risparmiava di commentare ogni volta e rispondere al vecchio padre:
“Sta citu, tu!… qui comando io, perché questa è casa mia e qui si cena solo quando lo decido io”.

Vittorina si era sposata con Nerio nel 1895. 
All’epoca, a volte, i matrimoni erano combinati dalle famiglie e così fu pure per lei. C’erano delle persone che lo facevano per mestiere di trovare i mariti alle ragazze nubili.. erano chiamati “ruffiani”.
Vittorina era nata nel 1873 e sua mamma era morta di parto, che a quei tempi purtroppo accadeva di frequente, ed allora fu allevata dal padre Amelio e  dalla nonna e le zie che vivevano in casa con loro.
Era una vecchia famiglia patriarcale dove le figlie ed i figli sposati continuavano a vivere assieme in una grande casa, un vecchio mulino del ‘700 trasformato in parte in abitazione, nel centro della cittadina di Racconigi.
La famiglia era numerosa, le bocche da sfamare erano tante ed i soldi invece erano pochi.
Papà Amelio allora decise di rivolgersi ad un “ruffiano” che gli avevano indicato e che in cambio di pochi denari avrebbe trovato un marito alla figlia.
Le trattative furono brevi ed un marito le fu trovato. 
Fu così che da papà Amelio venne immediatamente deciso il giorno del Matrimonio, il giorno in cui Vittorina avrebbe visto per la prima volta e conosciuto il suo futuro consorte.
Vittorina, nel suo intimo, era di certo molto ansiosa e temeva che quell’uomo, che appunto non conosceva, avrebbe potuto non essere di suo gradimento, ma al padre “padrone” che faceva il mugnaio bisognava obbedire, poi un uomo in più in casa erano braccia in più a lavorare nei campi ed al mulino.
Quando fu al Municipio, accompagnata dal padre, dalle zie e da alcune cugine, Vittorina avrebbe voluto scappare, piuttosto farsi monaca, che sposare uno sconosciuto!
Poco dopo Nerio Piavotto arrivò, accompagnato dai testimoni e da un suo fratello. Ebbe un sorriso compiacente nel vedere la sua futura sposa, perché lei era una giovane e bella ragazza, le si avvicinò, le porse la mano e le disse “Sono onorato, farò di Voi una sposa felice” ma non tolse il cappello e questo fatto impressionò molto Vittorina.
“Come! – pensò – costui appare galante, ma non è educazione non cavarsi il cappello!”.
Entrarono nella sala dell’Ufficiale Comunale addetto alla stesura del contratto di Matrimonio ed a quel punto Nerio fu obbliigato dalle circostanze a togliere dalla testa il cappello e mostrare così alla sua futura sposa il suo cranio completamente calvo, malgrado la giovane età.
Vittorina, quando vide quell’uomo un po’ cicciottello e senza capelli, che non le piaceva,  ebbe una specie di smarrimento, ma abituata ad obbedire in silenzio, anche in quella occasione lei non tradì il caro padre e quindi disse “sì” alla domanda di rito e firmò il verbale del Contratto di Matrimonio.
La domenica seguente ci fu il Matrimonio religioso in Collegiata, la chiesa era piena di gente e Vittorina apparve felice.
Sì, perché quell’uomo che in Municipio aveva conosciuto e che non le era piaciuto, in realtà in pochi giorni si era dimostrato più che mai galante, educato e gentile, e poi simpatico e allegro. Certo, era senza capelli, ma andava bene lo stesso!
L’anno seguente al Matrimonio tra Nerio e Vittorina la famiglia patriarcale in cui vivevano fu allietata dalla nascita della prima figlia, alla quale fu dato il nome anche a lei di Vittorina. Non si poteva non dare il nome della nonna paterna e,  quarda caso,  la nonna paterna si chiamava pure lei Vittorina.
Era il 6 di Gennaio del 1896, il giorno dell’Epìfania, ed allora le fu scelto come secondo nome di battesimo quello di Epifània.
Quella bambina però non venne mai chiamata ne col nome di Vittorina ne di Epifània, ma più semplicemente col soprannome di “Verin” (che forse poteva essere il diminutivo di Vittorina in dialetto piemontese).

Il giorno che Vittorina Piavotto chiamò i sei figli a cenare, un giorno uguale a tanti altri, era il 27 di Marzo del 1926.

Verin, la primogenita, la prima di sette figli, all’epoca aveva già compiuto trent’anni. Era l’unica già maritata e si era trasferita a Guarene, nell’Albese, in casa del marito Leonardo, dal quale aveva avuto due figli, nel 1921 Gigliola e nel ’23 Lodovico.
Gli altri sei figli di Vittorina invece erano ancora tutti a Racconigi in casa con i genitori.
Amelio, primo tra i maschi, nato nel 1899, era un bel ragazzone, molto serio e rispettoso della sua famiglia. Aiutava suo padre nella conduzione della campagna.
Lucia, nata nel 1900, che aiutata dalla Parrocchia e da alcune famiglie nobili di Racconigi, dove andava a fare compagnia alle vecchie signore, era riuscita a studiare, a frequentare l’Università a Torino ed a laurearsi in Matematica. Aveva anche imparato a suonare un po’ il pianoforte. Lucia era ben voluta da tutti perché sveglia ed intelligente, ma anche perché  gli  altri avevano  per  lei  un  senso  di  “pietà”  per  le sue condizioni, a causa di un incidente infantile. All’età di cinque anni era purtroppo caduta in un paiuolo di acqua bollente, quelli grandi che si preparavano sul camino per fare il bucato o il bagno ai bambini. Si era gravemente ustionata fino alla vita ed ora, che era adulta, le conseguenze erano che era claudicante e che la sua “natura femminile”, come si diceva allora, ovvero le sue parti intime, erano state deturpate a tal punto che le era stato detto e fatto credere che non avrebbe mai potuto sposarsi e quindi avere dei figli.
Antonio, detto Tonio, nato nel 1903, era, al contrario del fratello maggiore, uno scavezzacollo con non troppa voglia di lavorare.
Alfonsina, detta Nina, nata nel 1906, era una ragazza semplice e ingenua, che aveva un fidanzato in Valle d’Aosta e che presto voleva sposarsi.
Costantino, detto Ceti, nato nel 1912, aveva quattordici anni. Un bel ragazzino che stava crescendo velocemente in altezza e che aveva un viso dai lineamenti stupendi, dolcissimi, quasi femminile. Aveva smesso le scuole e qualche volta aiutava suo padre in campagna.
Infine Elisa, la bimba di famiglia, la più coccolata, la più viziata, nata nel 1916 e che ancora era un’adolescente e che frequentava le scuole elementari.

Babbo Nerio si sedette a tavola, non prima di essersi fatto il segno della Croce e ringraziato il buon Dio per il pane quotidiano, e dopo di lui si sedettero la moglie Vittorina e i sei figli Amelio, Lucia, Tonio, Nina, Ceti ed  Elisa.
Il vecchio nonno invece era già seduto da un pezzo e certo non si alzava a dire una preghiera e poi non ascoltava nulla di quello che si diceva, anche perché era un po’ sordo e forse fingeva di esserlo ancora di più.
Sulla tavola, come succedeva da tempo, non c’erano tante cose se non pane, uova, formaggio e una bottiglia di vino. Il vino però era di quello buono, perché lo faceva il genero Leonardo a Piobesi d’Alba, e là il Barbera e il Nebiolo lo sanno far bene.
Leonardo era infatti un ottimo vinificatore,  aveva una bellissima vigna e sempre ogni anno vinceva il premio per il miglio Nebiolo prodotto nelle Langhe.
Nerio  quella  sera  sembrava serio.  Elisa e Ceti,  che scherzavano tra loro, non se ne accorsero, del resto erano bambini o poco più che bambini, ma gli altri figli, già adulti, si resero conto che il padre era imbarazzato e che tardava ad iniziare a mangiare, quasi cercasse il coraggio di parlare ai suoi figli, forse per qualcosa di importante, o di serio, o di grave.
Poi Nerio ruppe quel silenzio imbarazzante:
“Ragazzi, figli miei, i tempi sono duri e qui tirare avanti questa “baracca” sta diventando per me ogni giorno più gravoso e difficile… su Elisa e Ceti, non ci posso contare… tu Nina, vuoi sposarti e allora sarebbe meglio farlo al più presto, così a te ci penserà tuo marito… Lucia, purtroppo tu nelle tue condizioni non puoi andare a lavorare, però sei brava in Aritmetica e potresti dare lezioni private ai figli delle tue “Dame”… il problema è per voi figli maschi, Amelio e Tonio… siete uomini e non più ragazzi, avete braccia robuste, non c’è posto per voi nei campi, perché il lavoro è poco, basto io e potrebbe aiutarmi Ceti, che ha già quasi quindici anni… per voi bisogna trovare un lavoro fuori, magari a Torino alle fabbriche, c’è la Fiat che sta ingrandendo i suoi stabilimenti e forse assume operai…  oppure!..  c’è un’idea  che io ho in mente, me ne hanno parlato…”.
“Un’idea!... quale idea?”  sobbalzò Amelio.
“Li leggete i giornali quando andate al Caffè? Sapete cosa dice il Duce? sì, il Duce, quel Mussolini là a Roma… dice che l’Impero d’Italia diventerà sempre più grande e che Roma tornerà ad essere a Capo del Mondo!”.
“Ma pà… che centra Mussolini con noi?” –  interruppe Tonio.
“Centra, centra!... ma tu, Tonio, pensi solo alle sottane e non leggi i giornali”.
“Pà, sapete cosa vi dico – rispose Tonio – che a me della politica, del fascismo e di Mussolini non me frega un bel niente!”.
“Sbagli, fai male… bisogna sapere le cose... e quello che ho in mente è una cosa seria e bisogna ringraziare Mussolini”.
Amelio lo interruppe in maniera un po’ brusca:
“Babbo, siete partito dai nostri problemi, che le cose stanno andando un po’ male e adesso voi dite che dobbiamo ringraziare Mussolini!… scusate, ma a me sembra una sciocchezza quello che  state dicendo!”.
“Ragazzi, se mi fate parlare, capireste quello che io voglio dirvi”.
“Parlate dunque, ma dei nostri problemi e non di Roma”.
“E invece Roma centra… ovvero Mussolini… ha fatto le Colonie e dicono che la Somalia adesso è Italia,  che là è come essere in Italia, si parla Italiano e anche i “negri” debbono parlare Italiano… dicono che là si può fare i colonizzatori, che ti danno la terra e i "negri” che te la lavorano, basta dargli qualcosa da mangiare… e se sei capace puoi far tanti soldi… in piazza ho sentito parlare che da Torino sono partiti un gruppo e in Somalia vanno a fare il cotone… dicono che il cotone laggiù viene bene e che è molto  pregiato…”.
Tonio sbottò, quasi volesse far cambiare discorso a suo padre:    
“Papà, quello che state pensando mi sembra una follia! Non vorrete sul serio che andiamo in Africa…  io  non so neppure dove sia la Somalia, comunque mi sembra che è dall’altra parte del mondo… volete sbarazzarvi di noi…  questa è solo una follia!!
Nerio non diede risposta ed iniziò a mangiare. 
Poco dopo Nina, forse per cambiare discorso, disse rivolta a sua madre:
“Mamma, volete sapere che cosa mi ha scritto il mio Giuanin nella lettera che è arrivata stamane? Ha scritto che è venuto a sapere che qui a Racconigi vogliono cedere una macelleria, che la prossima settimana verrà per trattare e se l’affare andrà in porto è disposto a cercare un alloggio qui in affitto e poi a sposarmi subito”.
“Ah, dopo tante sciocchezze che stavo sentendo, questa sì che è una bella notizia!”

– rispose mamma Vittorina.


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